Per Martin Heidegger la pietra è senza mondo, l’animale è povero di mondo, mentre l’uomo è formatore di mondo. Questo essere “povero di mondo” da parte dell’animale viene descritto come uno stato di stordimento (Stimmung), in cui esso è interamente assorbito nel proprio disinibitore (l’ambiente); ne deriva che l’animale può solo comportarsi.
Il rapporto dell’animale con il suo ambiente e dell’uomo con il suo mondo fu al centro di un corso tenuto dal filosofo tedesco all’Università di Friburgo nel semestre 1929-1930, e quelle pagine appaiono particolarmente illuminanti circa l’analisi delle opere di Filippo Leonardi in mostra.
Nel video “Prefilossera” viene presentato in soggettiva il comportamento di una testuggine in un ambiente naturale, grazie ad una piccola telecamera montata sul suo dorso.
Il disinibitore heideggeriano sarebbe in questo caso il terreno di una vigna siciliana con le sue scabrosità, le foglie delle viti disposte in filari, viste dal basso verso l’alto, le porzioni di cielo che si intravedono, mentre il comportamento dell’animale risulterebbe formalizzato nei suoi movimenti rapidi fatti di continue deviazioni, arresti improvvisi, talvolta lunghe stasi. Ogni tanto fa capolino una zampa, inquadrata di sghembo dalla telecamera; la vista della pelle coriacea tutta scaglie e rugosità ci fa fremere, turbandoci.
E’ solo allora, di fronte a quel turbamento che ci rendiamo conto di avere temporaneamente assunto il punto di vista dell’animale, e questo ci fa orrore.
Il rapporto tra l’uomo e la natura (tra l’uomo e il mondo) è tutto mosso da questa ambigua relazione di attrazione e repulsione, di partecipazione ed esclusione, di conformità e distinzione, in ultima analisi di desiderio di farne parte e istinto di dominio. “Sappiamo” di esserne parte, e dunque siamo gli unici animali a non esserne completamente storditi e assorbiti, e questo ci da un potere, il più delle volte distruttivo.
Giorgio Agamben che riprende i contenuti di quel famoso corso di Heidegger e li porta ad ulteriori conseguenze, in “L’aperto, l’uomo e l’animale” analizza molto bene questa relazione, cogliendone una sfumatura ironica (ma si potrebbe anche dire grottesca): “La macchina antropologica dell’umanesimo è un dispositivo ironico, che verifica l’assenza per Homo di una natura propria, tenendolo sospeso tra una natura celeste e una terrena, fra l’animale e l’uomo…”.
L’arte del resto è parte di questa macchina antropologica e in quanto tale rivela, non senza ironia, l’aporia del corpo scisso tra animalità e umanità.
Nell’opera “Impigli”, una manciata di spine selvatiche raccolte dalle formiche e prelevate nei pressi di un formicaio, impigliatesi su un tessuto lanoso, danno origine a delle mappe. Anche qui il comportamento animale è alla base dell’opera, per mezzo della selezione e raccolta del materiale (le spine) da parte delle formiche, l’artista-uomo formalizza il mondo in un suo universo poetico; dando origine a una sorta di co-autorialità, in cui il rapporto tra animale-povero-di mondo e animale-formatore-di mondo viene risolto in chiave poetica, attraverso l’opera.
Si diceva dell’ambiguità e dell’ironia rispetto al desiderio dell’Homo di fare parte della natura, ma nello stesso tempo di sentirsene separato; ne è un perfetto esempio il monocromo in mostra, costituito da una tinta specifica, lo smalto 18M16, il colore verde militare che l’esercito italiano ha adottato convenzionalmente per effettuare operazioni mimetiche in cui è necessario che l’uomo si confonda con la natura. Ancora un ulteriore esempio di quella macchina antropologica paradossale che è l’umanesimo.
Molte sono inoltre le opere in mostra in cui la forma naturale e la forma generata dall’uomo (l’artefatto) entrano in relazione, come in “Groviglio” formato da rami e raspi e in “Armatura “, ma è in ” Sinestesie ” che l’elemento perturbante e grottesco ritorna, lasciando l’ironia del verde mimetico come una nota leggera sullo sfondo.
In “Sinesteie#1”, un corpetto ortopedico in materiale plastico, utilizzato per fare da tutore al corpo umano, viene messo in relazione con un cesto incompiuto di fibre vegetali. Il turbamento è simile a quello che ci prende di fronte alla vista della zampa della testuggine che fa capolino nel video.
Quel corpetto ha infatti una assonanza formale con il carapace dell’animale e suggerisce la fragilità di un corpo molle che necessita di sostegno, mentre il materiale plastico rigido con cui è costituito contrasta con la fibra vegetale flessibile del cesto scomposto.
Si assiste ad una volontà di forma che è dell’artista-uomo, in netto contrasto con la libertà sinuosa dell’elemento naturale, potenzialmente piegato a quella volontà di cui resta prova come manufatto disfatto.
Se l’animale e il vegetale è presente in mostra solo attraverso le proprie spoglie (il carapace, i raspi, le spine, i tralci), l’elemento vivente è presente in “Sinestesie#2”, dove il mosto d’uva in fermentazione comunica, attraverso l’olfatto, la propria presenza. Anche in questo caso come in “Sinestesie” il rapporto con l’uomo è mediato simbolicamente da un oggetto-carapace, l’elmetto che funge da contenitore per il mosto. L’assonanza visiva tra il colore del mosto e quello del sangue acuisce quel senso di ironia e turbamento che attraversa le opere come un filo rosso, ricordandoci, per dirla con le parole di Gilles Deleuze e Felix Guattari in “Mille Piani”, come il frutto della vite, il vino, cui tutta la mostra sembra dedicata, con la sua ebbrezza rappresenti in ultimo: “ l’irruzione trionfale della pianta in noi…”
Giusi Diana