La leggerezza del cemento – Con un testo di Marco Meneguzzo

LA LEGGEREZZA DEL CEMENTO

Marco Meneguzzo

L’avvento del cemento come materiale pittorico ha una data precisa, almeno in Italia. La fine degli anni Cinquanta, ovvero le estreme propaggini dell’Informale che, insieme alla memoria allora recentissima di un certo Brutalismo in architettura, vedevano nel cemento da un lato un materiale povero, duttile, nuovo, senza storia e persino un po’ sordo, un materiale resistente, oppositivo al gesto, dall’altro il materiale costruttivo per eccellenza, e dunque urbano, sociale, collettivo, che consentiva un ulteriore avvicinamento dell’arte alla realtà. Nel giro di dieci, quindici anni, la parabola del cemento si è compiuta, nel senso che sono state sperimentate tutte le possibilità espressive – o concettualmente inespressive – del materiale. In questo processo Enzo Cacciola gioca una parte importante, perché ha esplorato tutte le possibilità di questo strumento dopo l’entusiasmo iniziale, dopo l’accecante illuminazione che vedeva entrare trionfalmente il cemento nel novero dei materiali artistici (e specialmente pittorici, visto che nella plastica era già stato ampiamente usato, come succedaneo poco costoso di materiali più nobili). In questo il suo atteggiamento è stato perfettamente coerente con gli assunti più radicali della cosiddetta Pittura Analitica, che negli anni Settanta rifletteva sugli strumenti del fare pittura e contestualmente sulla figura sociale del pittore come produttore, e veniva da esperienze quali quelle di Giuseppe Uncini, ma anche e soprattutto di Piero Manzoni, i cui Achrome, fatti – e non dipinti – col caolino bianchissimo sono l’immediato precedente dei suoi cementi e asbesti. Cacciola infatti usa il cemento come superficie cromaticamente neutra, almeno all’inizio, cioè come un materiale la cui caratteristica principale è una sostanziale inespressività: i suoi quadri – anche chiamarli quadri suona strano, forse è meglio chiamarli semplicemente “cementi”, in modo che la superficie è l’opera – si differenziano l’uno dall’altro per l’autodisporsi del cemento sul supporto, per la lieve differenza nell’asciugarsi, che dà qualche variazione cromatica, così come la differenza negli Achrome manzoniani o nei Monochrome blu di Yves Klein è data da quantità meccaniche e mai da qualità espressive. In questo, Cacciola è ancor più radicale, perché riesce a eliminare dalla sua opera anche l’evocazione urbana e sociale che il cemento come materiale dovrebbe immediatamente ricordare.

Eppure, egli stesso riesce a contraddirsi in una serie di esperienze estetiche ripetute a distanza di tempo (1979, 1980 e 2017), la cui costante è quella di essere state realizzate tra i Caraibi, Cuba e per il Messico. In queste esperienze Cacciola usa il cemento colorato (!) su garza o su tele leggere libere dal telaio, le realizza en plein air tra le spiagge caraibiche o le colline di Rocca Grimalda (prima di spedirle in Messico), in una situazione, cioè, lontanissima dal rigore calvinista dello studio visitato da Klaus Honnef – il massimo teorico dell’analiticità in pittura, che lo inviterà a Documenta 6, a Kassel nel 1977 – e molto vicina invece alle situazioni da “buon selvaggio” alla Gauguin, o al “terzomondismo” dei muralisti messicani storici o, ancora (e per essere molto snob) alle geometrie dei “Penetrabiles” del brasiliano Hélio Oiticica. Ora, la domanda che criticamente ci si deve porre riguarda appunto il contesto, che è elemento così importante per l’arte contemporanea. Ebbene, il contesto in cui sono realizzate queste serie speciali di opere ne muta il concetto? E questa mutazione si percepisce?

Di sicuro, in questi cicli di lavori viene meno qualunque riferimento al contesto urbano, e quindi all’organizzazione sociale e, per induzione, politica: sono la testimonianza di una felicità individuale, che però si può ritrovare anche in un materiale così apparentemente refrattario. Il cemento diventa leggero, quasi trasparente come la garza o la tela a trama larga su cui è steso, e si ha l’impressione che venga lasciato asciugare al sole, come si stenderebbe un lenzuolo appena lavato, e che appartiene a una “dotazione” quotidiana ridotta all’osso. A fare da sfondo a queste opere non si può immaginare una situazione di stabilità, di benessere, da società affluente, che costruisce la propria immagine sulle cose robuste e sicure che ti costruiscono addosso un guscio di protezione, ma solo un giaciglio in una capanna di legni recuperati e lamiere. Anche in questo contesto immaginario, di cui è impossibile negare una fetta di romanticismo, il cemento riesce ad adattarsi e a trasformarsi nel contrario di ciò che immediatamente la stessa parola evoca. Diventa leggero, si diceva, aereo, trasparente persino, una membrana cromatica dietro la quale non si può fare a meno di immaginare il sole e un refolo di brezza che lo muove come una cortina permeabile che separa provvisoriamente il dentro dal fuori: ma è pur sempre cemento …

Ciò significa che l’artista ha saputo sperimentare il limite del materiale – che proprio per questo assurge quasi alla categoria superiore della “materia” – sino a stravolgerne la natura. E’ ancora una pratica analitica, nonostante l’evidente partecipazione sentimentale alla realizzazione di questi lavori? La risposta può essere positiva, perché, ad esempio, “testa” le possibilità del proprio strumento espressivo, e nel far questo lo libera e si libera dalle convenzioni e dagli stereotipi sulla materia e sulle sue evocazioni (il contesto urbano, su tutte), ma alla fine è una domanda abbastanza inutile. Le ragioni dell’arte – e dunque anche quelle rigide della Pittura Analitica – sono fatte per essere contraddette, una volta che si è imparato a rispettarle, e Cacciola fa questo: se prima analizza, ora partecipa, e se l’emotività dell’artista, prima o poi, salta sempre fuori, ciò che qui è sorprendente è la restituzione di una specie di calore emotivo a un materiale che non sapeva di possederlo. In altre parole, non è solo l’artista che partecipa, è anche il cemento che lo fa.