L’ angelo della finestra Giuseppe Buzzotta
Con un testo di Davide Ferri
Confesso di avere una difficoltà mentre comincio a scrivere questo testo sulla mostra L’angelo della finestra di Giuseppe Buzzotta, che non so dire una cosa essenziale sui suoi dipinti, cioè non so decidermi da che parte stanno. Voglio dire: immaginiamo che qualcuno mi chieda di sfuggita come sono i suoi lavori. Saprei affermare con certezza che cosa descrivono, dal momento che guardandoli ho così di frequente la sensazione che rappresentano qualcosa? E saprei dire se sono figurativi o astratti? Eppure: è davvero necessario optare per una di queste due categorie? Non abbiamo affermato a ogni piè sospinto che questi due vecchi termini, dal suono così obsoleto se li pronunciamo ponendoli in contrasto in modo troppo manicheo (eppure inevitabili quando parliamo di pittura), andrebbero interpretati in modo poroso – perfino intercambiabile –, come quasi tutti i più grandi pittori da più di cinquant’anni a questa parte ci hanno insegnato a fare? E perché queste domande ridiventano improvvisamente urgenti quando guardo i dipinti di Buzzotta?
Quali sono dunque le cose che mi sembrano apparire nei suoi lavori? (se sento la necessità di elencarle, nonostante io sappia quanto fragile possa essere questo tentativo, è perché certi suoi dipinti mi chiamano a farlo): dettagli di realtà, come tessuti o panneggi. Pieghe che sembrano proliferare in modo incontrollato. Piccole voragini e increspature della superficie. Oppure vortici e movimenti dell’aria. Ma anche riccioli e volute che sembrano richiamare i motivi decorativi del Barocco più esuberante (“immagini secondarie”, direbbe Didi-Huberman). Infine carte lucide, piegate e stropicciate, su cui si posa la luce, bagliori e ombre sulla superficie.
E se alcuni dipinti fanno incontrare tutte queste cose, in modo variabile e cangiante, e attraverso una serie di stratificazioni che si traducono in un gioco di continue sovrapposizioni e dissolvenze, altri lavori sembrano stabilire con alcuni di questi referenti impalpabili un legame più univoco: quando descrivono,
ad esempio, pure escrescenze di materia – una materia che può far pensare ora a un tessuto, ora alla carta, ora alla pietra o al marmo lavorato – come rigonfiamenti, avvallamenti e gorghi.
Tuttavia, in Vista di Carini (Carini è il paese alle porte di Palermo in cui vive l’artista), il titolo spinge l’immagine di una superficie accartocciata (che si stringe a spirale attorno a una protuberanza o ricciolo al centro) verso il paesaggio, un paesaggio visto dall’alto come in fondo accade in molti lavori, i cui movimenti vorticosi richiamano, tra le altre cose, quelli dell’aeropittura futurista; così come in Alle Ninfe il rigonfiamento della materia provoca al centro una depressione, un vuoto che fa pensare a una cavità o una grotta, dunque ancora al paesaggio.
In Al potere che in se stesso crolla, invece, l’immagine sembra dar vita a un accenno di spazio, un ambiente angusto, come un ripostiglio o una stanza dimenticata, nel quale si intravvedono (in forma frammentaria e disarticolata) alcuni basamenti e statue, il potere a cui il titolo fa riferimento, segnate dalla polvere e in uno stato di abbandono.
Vista di Carini e Alle Ninfe, inoltre, sono tra i pochissimi dipinti di Buzzotta dove nell’immagine è possibile individuare un centro, o dei punti verso cui le forze che li attraversano sembrano convergere o dissolversi. In quasi tutti gli altri lavori, invece, le immagini sembrano percorse da onde che fanno risuonare la superficie in molti punti contemporaneamente, o da un movimento di incessante rigenerazione e ripiegamento (che secondo Gilles Deleuze è l’essenza stessa del Barocco) che provoca contaminazioni tra toni e colori, diramazioni e dissolvenze tra campiture, strati di pittura e linee che possono svilupparsi secondo andamenti ondulati, sinuosi e spiraliformi oppure più secchi, angolosi, frastagliati; campiture, strati e linee che possono stabilizzarsi in forme apparentemente più definite e un attimo dopo dissolversi e liquefarsi inabissandosi nello sfondo o negli strati sottostanti.
La maggior parte dei lavori di Buzzotta ha un formato verticale e una misura che non eccede mai le dimensioni del corpo, in modo che l’artista possa toccare con la stessa intensità ogni punto del dipinto. Il formato verticale, inoltre, sembra accompagnare due movimenti contrapposti: uno ascensionale, di cose che sembrano evaporare verso l’alto, e al contrario uno discendente, di dispersione verso il basso di forme disincarnate e panneggi caduti (per usare, ancora, due espressioni di Didi-Huberman). C’è poi un altro movimento, di avanzamento e arretramento, di concavità e convessità, come un lieve respiro del dipinto o l’accenno a una spazialità che dà l’illusione di una maggiore presenza e consistenza delle cose rappresentate.
I dipinti di Buzzotta sono dunque sostenuti da alcune forze in equilibrio, che sembrano agire in sottotraccia determinando spostamenti, smottamenti, combinazioni e compenetrazioni di toni e campiture, movimenti che non sembrano risolversi e approdare a una immagine stabilizzata, definitiva, ma sospendersi in un non-finito perpetuo. Questo carattere non-finito appartiene sia ai dipinti che hanno un aspetto “(iper) lavorato” e dettagliato (i cui strati finali preannunciano sempre la possibilità di altri movimenti e germinazioni di nuove forme), sia a quelli che presentano vuoti e lacune, spazi bianchi o addirittura la tela di lino grezza, come accade soprattutto nei piccoli dipinti verticali che l’artista ha deciso di esporre in L’angelo della
finestra, vere e proprie partiture astratte con pennellate e tratti che preannunciano un movimento che si dispiega nei grandi dipinti. Questi lavori verticali, in dialogo in mostra con quelli di grande dimensione, dimostrano come i segni di Buzzotta siano in partenza intermedi e intercambiabili: possono restare segni di pittura, che mantengono il loro statuto di macchie e pennellate, possono alludere a cose riconducibili al reale, virare verso la figurazione, ma sempre restando un pochino al di sotto di un suo effettivo compimento. Detto tra parentesi: durante una delle conversazioni telefoniche tra me e Giuseppe che hanno preceduto la scrittura di questo testo, gli ho chiesto quello che mi piace sempre chiedere ai pittori (ho il sospetto che a tutti piaccia fare ai pittori questa domanda), cioè quando ha la sensazione che il dipinto sia veramente approdato a una fine. La domanda suona un po’ scontata, lo so, ma il punto è che per Giuseppe questa è una faccenda delicata, come se la fine del quadro coincidesse sempre con un vertice di irrisolutezza, di indefinizione dei possibili referenti che si sono affacciati sulla tela in un percorso di costruzione dell’immagine sempre non programmato e non progettato.
Anche il titolo della mostra, L’angelo della finestra, ha un carattere oscuro ed indefinito. So, perché me lo ha detto Giuseppe, che deriva dal titolo di un grande romanzo cecoslovacco che non ho letto (L’angelo della finestra d’Occidente di Gustav Meyrink). So, inoltre, che c’entra Angelo Maria Ripellino (commentatore a più riprese del libro di Meyrink; siciliano come Buzzotta, di cui l’artista è stato appassionato lettore) e la sua capacità di tracciare i fili di una possibile unione tra due diverse forme di visionarietà: quella mediterranea (siciliana) e quella mitteleuropea (praghese), una visionarietà di fantasmi e spettri erranti per i vicoli stretti della città.
Per un periodo, anni fa, Giuseppe si è ritrovato per più tempo del previsto con un grosso buco nello studio, mentre alcuni operai costruivano una porta di collegamento tra la casa adiacente e lo studio, un lavoro che subì un rallentamento per via della scoperta inaspettata di un grosso pilastro da rimuovere nelle fondamenta. Per mesi, dunque, Giuseppe ha dipinto in compagnia di quel buco, guardando quel buco, e in quel buco ha immaginato molte volte di veder comparire all’improvviso un angelo, ma non l’angelo che l’iconografia cristiana ci ha tramandato. Direi piuttosto: un angelo demone, un angelo nero, un angelo sporco di fuliggine e polveri di calcestruzzo, un angelo bestia, o semplicemente un angelo fantasma o spettro come le figure di Meyrink. Guardandoli bene, i suoi dipinti mi sembrano parlare di questo: fantasmi, fugaci apparizioni, ombre di realtà.
Davide Ferri