Postcontemporary Outsiders (The Lost and Found Collection) – Con un testo di Salvatore Lacagnina

Fiction as an exhibition tool

Appunti per Postcontemporary Outsiders (The Lost and Found Collection)

Salvatore Lacagnina

Tamás Kaszás ha sviluppato in questi anni uno strumento sempre più accurato per costruire le sue mostre. Questo strumento è la fiction o forse più precisamente lo storytelling.

La mostra per lui non è quindi un momento o uno spazio dove esporre il proprio lavoro, ma è trattata come genere e come un generatore di contesto.

La prospettiva narrativa nella quale nascono i lavori non è resa evidente dalla ricostruzione di un ambiente o da una scenografia teatrale. Si tratta piuttosto di un esercizio di immaginazione nel quale le opere e lo spettatore si trovano ad agire, e lo spettatore è chiamato, prima di tutto, a immaginare, a osservare immaginando.

Facciamo che era… è la formula che usano i bambini per entrare nel mondo dell’immaginazione, per dare inizio al gioco che deve essere vero per davvero, dove una chitarra è una spada e una scala la tolda di una nave. È in questo momento che nascono storie, avventure, invenzioni; è qui che si è catapultati in un universo parallelo dove tutto è possibile, e la nostra capacità immaginativa è il solo limite.

In questo mondo del “come se” i lavori di Kaszás acquistano significati differenti e l’artista diventa un personaggio narrativo che, libero da vincoli, come un raffinato bricoleur, inizia a sperimentare.

Kaszás non ci porta in mondi fantastici, animati da creature alate, elfi o maghi. Si tratta piuttosto di mondi in un tempo indeterminato che segue a un qualche disastro (ecologico, per esempio?) dove si trovano tracce del mondo e della società di oggi, così come sono. Ci chiede di immaginare un mondo dove poco è rimasto del mondo come lo conosciamo: resti, detriti, scarti, materiali più resistenti, forse. E ci chiede di immaginare che cosa potrebbero fare queste comunità sopravvissute, in una situazione di estrema povertà – povertà di materiali, di tecnologie, di attrezzi, di strumenti. Forse si potrebbe parlare, a ragione di science fiction, a patto di chiarire che si tratta di mondi dove sono disponibili soltanto le tecnologie più semplici, le mani, la misura del singolo essere umano. Forse anche un mondo che assomiglia a certe periferie estreme, a certe favelas autocostruite, ai margini della cosiddetta modernizzazione della società attuale. Immaginiamo che cosa faremmo se non avessimo, anzi se non avessimo più, se avessimo perduto tutti i mezzi e le sicurezze a cui eravamo abituati.

Facciamo che era…

Nelle crisi, o anche nella povertà, non si può prevedere il futuro, e di conseguenza non si può pensare neppure in termini di modelli predefiniti. “Quando si riciclano materiali trovati, scarti organici o industriali, quando si lavora con materiali irregolari, non si può pianificare a priori un lavoro” – afferma l’artista. La creazione di uno spazio individuale e comune dipende dall’improvvisazione e dall’uso creativo di risorse limitate.

D’altra parte un raffinato filosofo come Emilio Garroni, poco frequentato in Italia e ancor meno in Europa, ha descritto il comportamento creativo come una funzione essenziale nel modo in cui la specie umana si adatta all’ambiente. Creatività come attivazione vitale di superamento di un ostacolo. Quindi, creatività intesa come dimensione pragmatica. E l’arte non è altro che l’espressione specializzata di un’attitudine comune a ogni essere umano, senza la quale non sapremmo orientarci nel mondo. E avviene, appunto, che il massimo di immaginazione, di capacità creativa, si sprigiona da un minimo di materiali e di elementi linguistici.

Non è un caso che Kaszás trova nella tradizione costruttivista, nell’assemblaggio, nel fotomontaggio, nel collage delle avanguardie moderniste, gli elementi linguistici e gli strumenti culturali da cui muovere.

La prospettiva narrativa libera l’artista dal tempo presente e la sua attività dal suo io biografico; consente di creare una serie di personaggi, di “soggetti narrativi”, si direbbe in letteratura, che hanno in comune con l’autore tutto quanto può avere il personaggio di un romanzo con lo scrittore.

In secondo luogo, intendendo la mostra come generatore di contesto, come creazione di uno spazio immaginato, si creano le condizioni per ri-contestualizzare il lavoro e inserirlo in prospettive altre.

Se il tempo di cui si parla è il nostro presente, ma il tempo in cui ci troviamo nella mostra è un futuro indeterminato, il lavoro diventa una speculazione sulla memoria culturale di una civiltà che finisce, e dove le gerarchie e le categorie del passato vengono dislocate, riconfigurate. Riciclare idee e materiali diventa un metodo necessario di comunicazione con il passato. Nessuna nostalgia, nessun rimpianto.

Questo tipo di strategia, Kaszás l’ha sperimentata a lungo, in progetti estremamente diversi tra loro. Spesso la finzione ci conduceva in un mondo di studiosi della nostra civiltà, dove archeologi del futuro percepivano le creazioni ritrovate piuttosto da un punto di vista etnografico o antropologico, dove la relazione oggetto-creazione-opera d’arte era esso stesso messo in discussione.

In questa mostra a Catania, per la prima volta, i protagonisti sono artisti e opere d’arte.

Il plot, la trama…

Facciamo che era la mostra di cinque artisti, le cui opere sono state rinvenute da un gruppo di studiosi, in un tempo dove il nostro mondo è collassato. Gli studiosi catalogano, analizzano, comparano, esaminano e alla fine restaurano, approvano, espongono, condividono con il pubblico – un pubblico – i loro studi e le loro scoperte.

Questo breve attacco narrativo può aprire già una discussione complessa su quello che una data società riconosce come arte e sul ruolo dell’artista nel mondo contemporaneo, sulla mostra come spazio condiviso, sul pubblico a cui l’arte è indirizzata, sul curatore o sullo specialista. Ma proprio qui è un punto cruciale del sistema narrativo-espositivo che Kaszás costituisce: lo spazio bianco tra i puntini deve essere colmato dallo spettatore, dal pubblico, dal collezionista, dal gallerista, dal critico – per quello che ne resta di questa professione.

L’artista, attraverso i suoi personaggi e la sua trama, ha lo spazio per le sue affermazioni estetiche, etiche, sociali. Ha la possibilità di indicare punti di vista e vie di fuga. Ma le lascia aperte, indeterminate nello spazio dell’immaginazione. Il significato, alla fine, è avviato solo dal dialogo, dalla capacità di aggregare un pubblico, dal rapporto tra il narratore e la comunità che si aggrega per ascoltare.

Per dirla con Walter Benjamin, il narratore trasforma un’esperienza – la propria? – nell’esperienza di chi ascolta… Il problema, posto alle origini del modernismo, è che il pubblico è ormai indefinito, sgretolato, non è unitario, non è percepito come unitario: “il popolo manca” diceva Paul Klee. E, se vogliamo spingerci più in là, la costruzione di un pubblico (di una comunità, se non di una società) è uno dei fattori determinanti per un’arte che voglia agire nella sfera sociale e politica, e non nel chiuso di un suo presunto sistema.

La finzione narrativa, mi pare, è lo strumento più importante con il quale Kaszás riesce a fare un’arte politica, che non sia didascalica, dimostrativa, o non veicoli soltanto le idee e le riflessioni di un teorico, di un filosofo o di un movimento politico.

Non suoneranno strane, o estranee, qui le parole di Gilles Deleuze quando parlava del compito politico dell’arte e in particolare del cinema: “Sono i più grandi artisti (più che gli artisti populisti) a invocare un popolo e a scoprire che “manca un popolo”: Mallarmé, Rimbaud, Klee, Berg. Gli Straub nel cinema. Gli artisti possono solo invocare un popolo, il loro bisogno di un popolo va al cuore di ciò che fanno, non è loro compito crearne uno, e non possono farlo. L’arte è resistenza: resiste alla morte, alla schiavitù, all’infamia, alla vergogna. Ma un popolo non può preoccuparsi dell’arte. Come si crea un popolo, attraverso quali terribili sofferenze? Quando un popolo viene creato, è attraverso le proprie risorse, ma in un modo che si collega a qualcosa nell’arte (Garrel dice che anche al Louvre c’è una massa di terribili sofferenze) o che collega l’arte a ciò che gli mancava. L’utopia non è il concetto giusto: si tratta piuttosto di una ‘fabulazione’ di cui un popolo e l’arte fanno parte”.

Entrando nella mostra, diventiamo noi stessi personaggi della finzione. Le opere lavorano sulla nostra memoria e sulle nostre impressioni, attivano le nostre conoscenze e restano mute davanti alle nostre ignoranze. Alla domanda “a chi è rivolta la sua poesia?”, Stephane Mallarmé rispondeva con un apparentemente laconico: “A chi vuole”.

Chi vuole può entrare nel mondo dell’immaginazione dove ci portano i lavori di questa mostra: Facciamo che in un tempo indeterminato un gruppo di studiosi ha trovato e catalogato come arte una serie di oggetti. Ha ovviamente anche inventato il nome agli autori o alle autrici di queste opere in base alle tecniche, al materiale utilizzato o ad alcuni motivi: The Colorless Painter (Il pittore senza colori), The Master of Garbage (Il maestro della spazzatura), The Master of Decomposition (Il maestro della decomposizione), The Toymaker (Il fabbricatore di giocattoli), The Artist of Lines (L’artista delle linee).

I nomi degli autori sono densi di ironia, quasi a ribaltare l’orgoglio con cui gli artisti anonimi sono trattati dagli storici dell’arte: il maestro dell’altare, il maestro del crocifisso ligneo o del coro…

Ma sono i titoli che aprono possibilità narrative che ora si incrociano, ora si allontanano, in un guazzabuglio di storie.

Le opere a loro volta si animano di personaggi. Adolescenti che vogliono chiudere una finestra con una tenda in plastica nera New type homemade blackout curtain with a motif from Dunaújváros, attribuita al Maestro senza colori. Chissà che musica ascoltano. Sicuramente sono impressionati da una grande architettura, di impianto realista-socialista, con motivi neoclassici sulla facciata aggiunti per assecondare i gusti di Stalin (barocco stalinista, lo chiamano gli storici) e costruito tra gli anni Cinquanta e Sessanta per ospitare in grandi appartamenti gli alti ufficiali sovietici e le loro famiglie. È dipinta in bianco – senza colore ovviamente.

O bambini che giocano con prototipi di macchine (Karin, che è la copia di un prototipo di concept car della Citröen del 1980), o con armi giocattolo (una serie di matite organizzate come fossero cartucce pronte all’uso – lo indica il titolo Ammo – munizioni). O una tavola di truciolato coperta di laminato che simula le venature del legno, che diventa un Relief of Nostalgy, un bassorilievo alla nostalgia, ricordando forse i mobili della stanza di un ragazzo, ricoperti di adesivi e con il rilievo di una stretta di mano. È un simbolo tipico del regime sovietico, un simbolo di solidarietà e amicizia. Ancora un simbolo di origine sovietica ritroviamo nella mezza corona di alloro di Lost Frontier, riprodotta su un paesaggio di montagne che chiudono l’orizzonte, dipinto utilizzando solo acrilico bianco, dal Pittore senza colori. Da tempo Kaszás indaga il valore dei simboli rispetto al contesto di provenienza e sull’ambiguità della memoria. Già nel 1999, prima di completare gli studi, aveva realizzato un generatore, che in modo casuale combinava all’infinito simboli utilizzati per la propaganda o come araldica di città e “stati”: Symbol rehab.

L’Ungheria e l’Europa orientale sotto il controllo dell’ex Unione sovietica, sono sempre presenti nel lavoro di Kaszás: l’ambiguità della memoria, il cambiamento del sistema politico, i segni di un mondo che cambia inesorabilmente e rapidamente, verso il capitalismo postindustriale, verso la democrazia, la postdemocrazia, e tutti gli stramaledetti post del nostro tempo.

Gli artisti di questa mostra, di questa storia fittizia, come accade in numerose altre invenzioni di Kaszás, fissano immagini, colori, momenti, registrano abitudini sociali, personali, estetiche, e le inseriscono in nuove prospettive, nel tentativo di preservare una memoria senza cristallizzarla, ma sottraendola comunque al giudizio morale e storico del momento.

Il Maestro della spazzatura è l’artista degli scarti, dei resti. A volte si tratta quasi di ready made che raccontano il cambiamento climatico come lo pneumatico con piccoli pezzi di quarzo bianco incastrato nelle scanalature del battistrada: For thermokarst terrain (Per terreni termokarst – termine con cui si indicano i terreni sconnessi che rimangono dopo lo scioglimento di ghiacci. Oppure, utilizza materiali da costruzione, come barre di ferro per il cemento armato, reti da cartongesso, silicati, diventano nell’immaginazione del Maestro un ready made una “scultura” prefabbricata per una futura scoperta archeologica (Prefabricated find for future archeologist).

Così l’artista parla invece di Prestoration: “In questo caso ritorno all’archeologia. Il vaso di terracotta l’ho trovato vicino al fiume. Ho pensato che fosse antico. Probabilmente però ha 100 anni. Quello di metallo è degli anni Sessanta, Settanta o Ottanta. L’ho trovato insieme ai miei figli. L’ho restaurato e ho inserito un falso tesoro: alcune monete ungheresi senza più valore. Spesso i vasi venivano utilizzati per trasportare monete”.

Se la scultura è piuttosto chiara, è il titolo a riportare il discorso sulla questione ambientale. Prestoration, infatti, è un termine coniato di recente dai biologi che si occupano di restauro ambientale per indicare le attività di manipolazione degli ecosistemi degradati o perduti verso uno stato di benessere ecologico che preveda e si adatti ai prossimi cambiamenti del sistema terrestre. “Il restauro ecologico deve basarsi sulla migliore scienza disponibile; tuttavia, dobbiamo renderci conto che la nostra conoscenza dei sistemi naturali non sarà mai completa. Riempire gli spazi vuoti è un’arte”.

Delle lattine di birra schiacciate, costituiscono un ovale, imitazione di un classico dell’arredamento o della pittura, o uno scudo incorniciato? Su di esso sono dipinte due figure inseparabili. Sono Dydimos e Dimorphos, i nomi scelti dal greco antico – “gemello” e “dalla doppia forma” – con cui la Nasa ha denominato un asteroide e il suo satellite: nel 2022 Dimorphos è stato colpito da una sonda, nel tentativo di sfruttare la forza d’attrazione tra i due corpi, per deviarne la traiettoria.

Il Maestro della decomposizione lavora invece con pezzi di legno trovati, esalta le linee scavate da un bruco o da un verme, ne fissa le forme leggere e sinuose con silicati o con argilla, crea piccole sculture, o aggiunge pendagli d’argilla per farne degli scacciapensieri. Oppure, ricostruisce, quasi in uno sfoggio di perizia tecnica, uno scenario apocalittico alla Mad Max, fatto di rocce, grotte e deserti dove sono collocate alcune piccolissime figure umane – un ritratto in presa diretta del proprio paesaggio, o, come suggerisce il titolo, una Vanitas di memoria rinascimentale? Il Maestro della decomposizione lavora sulla natura che si trasforma, ma, in questo contesto, il lavoro assume senza dubbio connotati più apocalittici riguardo alla situazione ambientale: la specie umana si muove su una lama sottile.

L’artista delle linee è un vero e proprio disegnatore. Ma i disegni sono in realtà dei fotomontaggi di linee tratte da immagini fotografiche, poi ritoccate con inchiostri o acquerelli. Rappresentano forme organiche, alberi, piante, uccelli, volti, sovrapposte a forme costruite dall’uomo – l’architettura è un altro dei motivi e degli interessi maggiori di Kaszás. Questi disegni sono intitolati Transparent Montage, montaggi trasparenti, un omaggio alla tecnica sviluppata da Lajos Vajda – un artista originario di un villaggio vicino a dove Kaszás vive attualmente – che dopo le prime sperimentazioni nell’ambito del costruttivismo e del collage, sviluppa dalla metà degli anni Trenta i suoi Montaggi di disegni sovrapposti, che chiamava trasparenti perché realizzati solo delle linee di contorno.

Il gioco narrativo, come si vede, non si chiude mai. E potrebbe ricominciare d’accapo, ancora, e ancora. Abbiamo fatto ricorso all’artista Tamás Kaszás – come soggetto biografico – in molti casi, uscendo dalla finzione della mostra. Potremmo aggiungere che è cresciuto in una piccola città in Ungheria, che oggi vive su un’isola sul Danubio, a pochi chilometri da Budapest. Potremmo parlare della sua generazione cresciuta a cavallo del cambiamento di sistema politico del 1989, dalla Repubblica popolare alla Repubblica di Ungheria. Potremmo parlare della sua formazione nel dipartimento di intermedia dell’Accademia di Belle Arti. Potremmo parlare del suo interesse per l’architettura utopica, per la semplicità degli strumenti offerti dal costruttivismo, del suo ricontestualizzare la cultura modernista al di fuori dell’utopia nello scenario di un futuro ipotetico, dopo un collasso ambientale, dove la specie umana deve ricominciare tutto d’accapo, e dove si può riflettere come la cultura cambia o quali culture si formano in diverse situazioni storiche, o nei diversi livelli tecnologici di una società.

Realtà e finzione non possono fare altro che confondersi. E in qualche modo devono confondersi. È così che Kaszás libera la sua immaginazione, eccede il suo io, può inventare e inventarsi.

Mi sembra che il suo lavoro abbia qualcosa di estremamente familiare, a livello di metodi, di tecniche, di visioni – pur nella differenza enorme di generazione, di origini, di temi, di problemi, di questioni e anche di soluzioni estetiche – con il lavoro di un artista come Jimmie Durham: che gli studiosi immaginati da Kaszás potrebbero chiamare Il Maestro del ribaltamento estetico e dei significati attraverso soprattutto lo humour, l’ironia, dolce, cinica, tagliente.

Durham amava il racconto, l’aneddoto, lo storytelling e ne ha scritto ripetutamente con accuratezza e incisività: “Ogni volta che parlo in Francia, devo avvertire tutti che intendo raccontare delle storie. Forse metà del mio intervento sarà costituito da aneddoti, ma mi è stato detto che non è sofisticato, che non è intellettuale o razionale. Mi fido degli aneddoti perché sono facilmente fraintendibili; non hanno un senso. Si può pensare di aver capito il punto, ma potrebbe essercene un altro e non si può mai dire se si è d’accordo o meno. Con le storie, al contrario, dobbiamo essere riflessivi. Si spera che quando ascoltiamo una storia diventiamo confusi e riflessivi nella confusione. Raccontare storie è anche il modo in cui sono stato educato. Personalmente, penso che, essendo confusi, si possa entrare più facilmente nel futuro. Se sono molto definito e so cosa sto facendo, mi sembra che farò necessariamente quello che ho fatto ieri: ripetere conoscenze che appartengono al passato e cercare di unirmi al futuro rievocando il passato, rievocando le mie certezze”.

Come Durham spesso suggerisce, la sovversione della logica testuale ha lo scopo di liberare le parole come materiale dal loro intrappolamento in convenzioni prive di senso (cieche credenze), così come il suo gioco con i materiali trovati ha lo scopo di liberare l’arte dall’inerzia mortale del monumentalismo. Chiamava architexture, la grande impostura del potere, nel connubio tra testi e architetture monumentali.

La finzione è per Kaszás uno strumento per modificare la mostra d’arte come genere. La narrazione è uno strumento di sovversione del potere. Ho provato a dire questo finora, probabilmente. O si potrebbe ricominciare, come Sherazade, a raccontare un’altra storia, dando fondo a tutta la nostra immaginazione, perché è l’unico modo di avere salva la vita?

Postcontemporary Outsiders (The Lost and Found Collection) – Con un testo di Salvatore Lacagnina

Postcontemporary Outsiders (The Lost and Found Collection) – Con un testo di Salvatore Lacagnina